Domenica mattina ho avuto la conferma, se mai ne avessi avuto bisogno, che scrivere è un lavoro di cesellatura. Minuziosa e lenta cesellatura.
Mettendo in ordine nei cassetti del mio comodino, ho infatti ritrovato un quaderno che avevo persino dimenticato di avere (non stupitevi, li dissemino ovunque e spesso ne uso tre o quattro in contemporanea).
Su questo “quaderno dimenticato” avevo scritto la prima versione di una poesia. Una prima versione che definire orribile è farmi un complimento.
Quei versi mancavano del tutto di ritmo, di pathos; avevo persino usato parole di uso comune – tipo “diarrea” – che non mi sognerei mai di inserire in una poesia.
Diciamo che era più prosa che poesia e, se proprio vogliamo dirla tutta, era anche una prosa scadente.
Ebbene. La poesia nata da quella prosa scadente è oggi una delle mie preferite, ma ho impiegato tempo e lavoro per farla nascere.
Per farvi capire, sono trascorsi tre anni tra la data che ho scritto su quel quaderno, in cima a quei non-versi, e la data in cui ho finito la mia poesia.
Non sto scherzando, mi ci sono voluti tre anni per trasformare quelle frasi malamente accostate tra loro in una poesia… anzi, in realtà ho impiegato dodici anni per trasformare quello che avevo vissuto in una poesia.
Ma questa è un’altra storia.
Non è la prima volta che mi succede di metterci anni per finire una poesia:
Foto di congerdesign da Pixabay
dice che le cose belle procedono a passo lento 🙂
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